Descrizione di due personaggi da parte di due miei compagni di corso (dai due poi ho ricavato un racconto)

 

Primo personaggio (un barbone)

Il sole di quel pomeriggio primaverile aveva cacciato senza preavviso la rigidità dell’inverno.
La gente, approfittando di quel inatteso tepore, si affollava attorno ai tavolini dei bar e delle gelaterie.
Solo lui sembrava non aver notato il cambiamento.
Se ne stava rannicchiato in un angolo, forse lo stesso angolo in cui aveva passato l’inverno, stringendosi ad una vecchia coperta che pareva potersi dissolvere da un momento all’altro tanto era logora.
Le scarpe erano bucate ed il cappotto, sporco e vecchio, tentava di coprire un vestito o un maglione nelle stesse condizioni.
Mi alzai dal tavolino del bar e d’istinto andai verso di lui per lasciargli qualche monetina.
Quando mi avvicinai mi rivolse uno sguardo stupito come se avesse paura che potessi chiedergli qualcosa di lui,  della sua vita, del suo destino.
Aveva un viso regolare con un mento leggermente pronunciato.
Dagli occhi piccoli ed indagatori sprigionava un’intensa tonalità di azzurro resa ancora più vivace dalla luce del sole.
I capelli lunghi erano coperti da un berretto di lana da cui tentavano di fuggire alcune ciocche ribelli.
Mi sorpresi a rilevare che, a dispetto dei vestiti, era pulito, il viso sembrava rasato e la mano, che allungò nella mia direzione, non mostrava la minima traccia di sporcizia.

Secondo personaggio (una ragazza sulla metropolitana)

“Mind the Gap, please.”
“Mind the Gap, please.”
La voce metallica dell’altoparlante della metro accompagnava tutte le mattine il viaggio di Marco verso Covent Garden e verso la monotonia del fast food dove lavorava.
Da un mese a questa parte, però, si scopriva ad aspettare impaziente la fermata di Gloucester Road dove lei sarebbe salita. Infatti eccola, puntuale come un orologio.
Oggi sembra più assonnata del solito e armeggia svogliata il tasto dell’i-pod.
Si mette proprio di fronte a lui e sedendo appoggia a terra la borsa di plastica nera di Harrod’s, da cui spuntano dei quaderni, sistema meglio l’auricolare e si passa, con aria intimidita, una mano fra i capelli rossi raccolti con una matita. Alcuni riccioli sfuggono ai lati del viso e lei se li attorciglia attorno ad un dito, giocando distratta e canticchiando sottovoce.
Fa freddo oggi a Londra e lei ha la punta del naso arrossata e sulla pelle bianca si notano di più le lentiggini. Cerca di scaldarsi le mani sfregandole l’una sull’altra e poi passandole sui jeans stinti che indossa.
“Certo che potrebbe vestirsi un po’ di più” pensa Marco, osservandola di sottecchi, “quel bomberino non basta neanche a coprirle le gambe e quelle scarpe hanno conosciuto tempi migliori!”
Quasi avesse percepito i suoi pensieri anche la ragazza si osserva le scarpe, muove i piedi avanti ed indietro e arriccia le labbra, con un moto di disapprovazione.
Ha una bella bocca, forse un po’ troppo grande rispetto al viso minuto, ma quelle volte che Marco l’ha vista sorridere ha notato come quel semplice gesto avesse il potere di accenderle gli occhi donandole un’aria decisa e sicura di sé.
Sono proprio gli occhi a colpire Marco: grandi, di un azzurro acquamarina, spiccano limpidi tra le ciglia sorprendentemente nere, che lei evidenzia ancora di più con un tratto di eye-liner spesso e curvato verso l’alto.

 

SVILUPPO DEL RACCONTO DA PARTE MIA

Il sole del primo pomeriggio sembrava aver cacciato senza preavviso la rigidità dell’inverno e la gente, sebbene la temperatura non fosse proprio quella primaverile, approfittando di quell’inatteso tepore, si affollava attorno ai tavolini dei bar disposti all’esterno dei locali.
Solo Marco sembrava non aver notato il cambiamento.
Se ne stava rannicchiato in un angolo, stringendosi ad una vecchia coperta che pareva potersi dissolvere da un momento all’altro tanto era logora.
Le scarpe erano bucate ed il cappotto, sporco e vecchio, tentava di coprire un vestito o un maglione nelle stesse condizioni.
I capelli lunghi erano coperti da un berretto di lana da cui tentavano di fuggire alcune ciocche ribelli.
A dispetto dei vestiti, era pulito, il viso sembrava rasato.
Marco, nonostante tutto, riusciva ancora, nel limite del possibile, a curare l’igiene. Ma era pur sempre un barbone.
(Vedi come ti sei ridotto?)
E cosa ci posso fare?
(Puoi cercarti un lavoro!).
Sono un mendicante…. e anche questo è un lavoro…
(Balle. Sei la conseguenza dei tuoi errori. Guardati: senza famiglia, senza lavoro, senza casa, senza soldi. Hai abbandonato tua figlia quando aveva pochi mesi. Ora paghi.)
Sto pagando.
(Ti commiseri. Sei un debole.)
Non è vero, le cose sono andate così.
(Guarda che bella ragazza si è seduta al tavolino, di fronte a te.)
E bella, assomiglia a mia figlia.
E mentre pensava così Marco estrasse da sotto la coperta la fotografia di sua figlia che teneva nella tasca del giaccone in una custodia di cellofan. Era riuscito a procurarsela, non senza difficoltà, più di un anno prima.
No, mia figlia è più bella.
(Vedi come ti osserva…le stai facendo pena..)
Non credo….se mi da qualche soldo lo rifiuto.
(Ti conosco, finirai col porgerle la mano).
Sono sicuro che non lo farò.
La ragazza, che lo aveva osservato con insistenza negli ultimi minuti, si alzò, lasciò sul tavolo i soldi della consumazione e d’istinto andò verso di lui per lasciargli qualche monetina.
Marco la guardò stupito come se avesse paura che potesse chiedergli qualcosa di lui, della sua vita, del suo destino.
(Ti sta ancora osservando.)
Ma che me ne importa. Basta che mi lasci in pace.
La ragazza, ormai vicina, lo guardò meglio.
Constatò che aveva un viso regolare con un mento leggermente pronunciato.
Dagli occhi piccoli ed indagatori sprigionava un’intensa tonalità di azzurro resa ancora più vivace dalla luce del sole. Doveva essere stato un bell’uomo.
Marco non resistette e allungò la mano nella sua direzione.
La ragazza gli versò nell’incavo delle monete. Non poté non notare che la mano non mostrava il minimo segno di sporcizia e gli sorrise amichevolmente.
Marco contraccambiò il sorriso. Era stata generosa.
Le ho fatto pena….l’ho capito bene.
La guardò allontanarsi.
Se ne stette più di un’altra ora in quel posto, infreddolito dentro, nonostante il tiepido sole, con i suoi pensieri.
Tra poco farà freddo di nuovo.
(Ora puoi tornartene a Covent Garten.)
E’ ora che vada.
Si avvolse meglio nella coperta, perché a stare fermo in quell’angolo si stava infreddolendo, ora che il sole, dopo aver donato tiepide illusioni, si era nascosto dietro le nuvole. Così si avviò verso la metropolitana pensando che, con un po’ di fortuna, l’avrebbe rivista, se avesse mantenuto l’orario degli ultimi giorni.
“Mind the Gap, please.”
“Mind the Gap, please.”
La voce metallica dell’altoparlante della metro accompagnava tutti i giorni il viaggio di ritorno di Marco verso Covent Garden..
Da un mese a questa parte, però, il suo viaggio non era così monotono perché aspettava impaziente la fermata di Gloucester Road dove lei sarebbe salita.
(Eccola, hai visto, puntuale come un orologio).
Oggi sembra più assonnata del solito e gioca con il tasto di quell’affare che ha in mano. Forse ascolta della musica…queste cose moderne…
La ragazza si sedette proprio di fronte a lui e sedendo appoggiò a terra la borsa di plastica nera di Harrod’s, da cui spuntavano dei quaderni, e sistemò meglio l’auricolare.
(Ora si passa una mano fra i capelli rossi raccolti. Vedrai!)
Lo sta facendo…. questa volta con una matita. Sembra proprio una ragazzina.
Marco notò che alcuni riccioli sfuggivano ai lati del viso e lei se li attorcigliava attorno ad un dito, giocando distratta e canticchiando sottovoce.
Il sole, a quell’ora, certamente era svanito del tutto e Londra doveva essere ripiombata nella temperatura invernale.
Fuori deve far freddo….altro che consumazioni all’aperto.
La ragazza, infatti, aveva la punta del naso arrossata e sulla pelle bianca si notavano maggiormente le lentiggini. Inoltre si era messa a sfregare le mani una sull’altra per poi passarle sui jeans stinti che indossava.
Certo che potrebbe vestirsi un po’ di più. Quel bomberino non basta neanche a coprirle le gambe e quelle scarpe poi…sono estive.
Quasi avesse percepito i pensieri di Marco la ragazza si osservò le scarpe, mosse i piedi avanti ed indietro e arricciò le labbra, con un moto di disapprovazione.
Aveva una bella bocca, forse un po’ troppo grande rispetto al viso minuto, ma quelle volte che Marco l’aveva vista sorridere aveva notato come quel semplice gesto avesse il potere di accenderle gli occhi donandole un’aria decisa e sicura di sé.
Marco rimaneva ogni volta incantato dai suoi occhi: erano di un azzurro acquamarina e spiccavano limpidi tra le ciglia sorprendentemente nere, che lei sapientemente evidenziava ancora di più con un tratto di eye-liner spesso e curvato verso l’alto.
La ragazza, sentendosi osservata, arrossì lievemente.
Guardò il barbone, seduto di fronte e anche lei spiò per un momento gli occhi dell’uomo, azzurri come i suoi.
Poi, come Marco già sapeva, la ragazza si alzò, essendo ormai prossima la sua fermata e traballando, per gli scuotimenti della vettura, si diresse verso la porta d’uscita, proprio di fianco a lui.
Ma l’improvviso e brusco fermarsi del trenino le fece definitivamente perdere l’equilibrio, già precario, ed andò a finire seduta su Marco.
Si rialzò scusandosi ed egli le sorrise soltanto, senza parlare.
Aveva sentito il suo buon profumo ed era stato come una ventata di primavera. E poi si era intenerito per quel contatto.
La ragazza scese e si incamminò verso il tunnel che portava all’uscita.
Il trenino riprese la corsa e Marco rimase solo con i suoi pensieri.
Quando si dice il destino. Stessa linea, stessa carrozza, stesso orario, nella metropolitana tra le più grandi del mondo. Come vincere il primo premio alla lotteria nazionale. Forse le medesime probabilità.
Ricordò che il suo cuore aveva avuto un sussulto, quando l’aveva vista la prima volta. Un po’ più donna rispetto alla fotografia…ma era lei…Grace… sua figlia.
L’aveva osservata per tutta la corsa cercando di non farsi notare. E quando era scesa aveva avuto la tentazione di seguirla, ma poi la ragione aveva avuto il sopravvento.
Il giorno successivo, sperando che lei salisse a Gloucester Road, aveva preso la stessa corsa al medesimo orario, scegliendo un po’ a rischio l’ultima carrozza del trenino, la meno affollata. D’altra parte anche lei, il giorno prima, era salita sull’ultima carrozza.
E lei era arrivata di corsa, all’ultimo momento. Stessa cosa nei giorni successivi, con meno o maggior fretta.
Una provocazione del destino che doveva ancora compiersi.
Marco si riscosse dai suoi pensieri. Doveva cercare di parlarle, di spiegarle tante cose, così si sarebbe liberato una volta per tutte dai suoi inutili sensi di colpa.
“Bravo!” esclamò la vocina in segno di approvazione.
“No, non posso farlo” protestò Marco a voce alta. Nessuno dei viaggiatori si sorprese. Un barbone può anche parlare da solo, è normale.
“Sei un cazzone”  inveì la vocina interiore.
“D’accordo, domani lo farò, succeda quello deve succedere”  si ripromise Marco, convinto di aver ignorato l’insulto.
E questa volta la vocina tacque, soddisfatta.

                                               *****

Marco aveva concluso di raccontare la sua storia al collega di lavoro.
“Non posso credere che tu sia stato un barbone” osservò l’amico.
“L’incontro con mia figlia mi ha cambiato la vita”.
“Ma non mi hai detto niente di come ti sei presentato a lei, delle spiegazioni che le hai dato, delle sue reazioni” insistette il suo interlocutore.
“Questa è un’altra storia…ma te la racconterò domani…forse” rispose Marco, alzandosi dal tavolo della mensa aziendale, sorridendo.

 

 

 

 

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